Fili filissimi, a vagiti,il vento,dagli orizzonti vallivi,col tocco dell’autunno dai mutevoli dialoghi fra timbri di lucori. Che sopra le colline dei querceti sanno di facce di melograni ben maturi, mentre ti accorgi che il cielo, sui ruderi della Fortezza,come stesse ripensando a fioriture di lavanda ,di quelle infilate, a spighette, ormai quasi non più,ad improfumare pieghe di biancheria-corredo,entro quei gelosi cassoni di una volta.
In questa sospesa silenziosità,intanto, appena, appena,s’arrampica il parliccio del vicinissimo Mavone ,che intrattiene conversazione alle solitarie vetrici del lungofiume.
Tutto preciso per una scelta giusta,doveva essere,per particolari eventi: stagione, mese, giorno, questo genere di ore serali. E quindi:un Ottobre ancora giovane,una lunazione come da un po’ di nottate ,ossia di una bianchezza virginea di plenilunio ad ostia,simile, a momenti proprio uguale,a quella dei torroncini Epifanie dell’azzurra infanzia. Un’ostia plenilunare che mi rimanda ,fra dita e labbra,come una sensazione di fragilità, tale a che a volte mi prende il timore di sentirla scricchiolare ferita,per il suo imprudente camminare ,nuda,lungo le creste delle rocciaie; e, più ancora,quando attraversa la lama ricurva del Dente del Lupo.
Ho scelto questo specifico punto proiettivo,sul sagrato di S.Giovanni ad Insulam.Se da qui, infatti,disegni con un lunghissimo immaginario dito,dirimpetto,verso l’alto,un’arcata di cielo con rigorosa semicircolarità,scorri tutto l’abbraccio delle montagne ,strette a gomito, in processione, sopra la vallata: uno scenario-anfiteatro entro il quale, si libra, solenne, il coro muto di tutte le vette. Un coro di una tale sinfoniale forzaimpressiva ,da inginocchiarti; con una specie di invisibile rèsina che impiastriccia le parole in bocca; e ti si apre una dimensione spirituale che consegna alle più inesplorate radure dell’anima.
Mentre dentro ti senti esplodere un silenzioso caldo profondissimo colpo di gong,che ti dà forza per questa evocazione:Isola del Gran Sasso ,mia piccola patria,è certamente tra i più straordinari paesi che possano esistere.
Così,dalla mia non tanto esigua conoscenza di cose di montagna: si tratta di un affettuoso, irripetibile ventaglio di picchi, speroni,torrioni,rocciaie,che veglia sul nucleo dell’antico castello dell’Insula,con un ritmo che ha compimento sulla figura incielantesi del Gran Sasso.
Facile eccepire:ma anche e come, si trovano paesi e paesi entro scenari naturali di intensa fascinazione ,notissime prelibate ghiottonerie turistiche. Certissimo. Ecco però il punto,fortissimo. In tali casi, le masse materiche dei nuclei montagnosi,sono sempre più o meno slegate tra loro :hanno cioè una presenza priva di armonioso avvolgente insieme, tipica della catena della Valle Siciliana.
Obelisco d’Italia,con icastica e scarna indicazione , di gènesi greco-romana, chiama il Gran Sasso Atacino Publio Terenzio Marrone ,poeta di tendenza ellenistico-aristocratico.L’indicazione Varroniana,certo, esalta ed onora il Gran Sasso d’Italia. Ma “obelisco”pur nella sua accezione di assolutezza,non dice tutto, non dice del complesso simbolismo del Gigante appennino.Prendiamo un esempio,appunto,la sua gigantità,ossia l’essenza di essere a quel modo dominante. Evochiamo ,pertanto,la sua superba sinfonialità scenica, he trova pienezza negli indici identitari che seguono.Il suo occhio può arrivare a scorgere la sconfinata forza verde-violina dell’Adriatico; ha sul petto “Il Farfallone”,che così nessun cielo del mondo ha mai visto volare;ai piedi,l’ “Aquilone bianco”,che non esistono braccia così forti da farcela a rilanciarlo;sotto la spalla destra,,sempre a guardare dalla vallata,veglia, coricata , la testa rocciosa di Corno Piccolo,dal profilo,fronte, bocca, ciglia,labbra ,mento,occhiatura , così umani che t’impressionano,dalla sua nuca scivolano modulazioni di colli ,che da sotto l’Arapietra ,vanno incontro , a mezza strada ad abetaie e faggete dei Prati di Tivo.
Torniamo ai perché delle scelte premesse in apertura.Sia per cogliere nella sua solennità il muto concerto dello scenario-anfiteatro del ventaglio di montagne; sia per il prodigio scenico del “gèmino tramonto”,ci volevano virginea ostia plenilunare,pulitissima serenità di cielo,assenza di vento,; insomma proprio questi così di mese, giorno ed ore serali. Il “gèmino tramonto”:a fine viaggio, ossia dopo il tramonto,il sole, in ripensamento innamorato ,torna indietro a spargere copiose bracciate di petali che irròsano le creste preminenti del Siella,Camicia, Vùcino,Prena, Brancastello.
Un prodigioso, tenerissimo gesto ,da sorseggiare ,anima e corpo, da brividii sulla pelle,nella stupefatta sospensione d’incanto di uomini e cose.
Riallacciando ragnatele di fili da remoti spiragli memoriali,ecco,in sintesi come cosa è successo.
C’è da risalire ad un’indicazione del sommo conterraneo D’Annunzio. Il quale, nel suo libro postumo”Di me a me stesso”,più o meno in maniera perspicua, ma sempre a suo modo suggestivo,sostiene che la lettura dei sogni può essere, in un certo senso,traslata dagli scrittori,nella realtà quotidiana,con i suoi \contenuti e messaggi.
Qui il mio immaginario s’intreccia col “Gemino tramonto”isolano. In quanto,ho sognato e risanato e rpensato spesso di Empedocle,filosofo,naturalista,poeta, un’evocazione dalla vaghezza, dalla melodiosità misteriosa di pensiero,stupefacente: …”Un tempo fui fanciullo e fanciulla,,arbusto, cavallo e pesce del mare “.
Lessi ed ho riletto di recente le pagine del suo “De Natura”.Mi ritrovo \che nei miei sogni ho sempre scelto di voler essere cavalo. Ed anche stasera così riscelgo nel mio immaginario. Mi si si riapre in tal modo un nesso,da uno squarcio memoriale di edenici giorni infantili,col “Gemino Tramonto”.Fin da quei giorni,infatti,ho avuto una certa dimestichezza nel cavalcare. In una piccola radura del sottobosco di mio nonno.Il cui volto sugheroso si apriva ad un suo strambo sorriso con pochi denti,tutte le volte,e succedeva spesso,che venivo sbalzato dalla groppa, del puledro semibrado,per sella una sbrendolata giacchetta militare grigioverde.
Ma arrivò un pomeriggio di quella primavera di un caldo assai precoce, che il puledro,come si disse in dialetto si “spallò”, ossia precipitò lungo un costone strapiombante.Dovettero abbatterlo. Io non ci fui presente. Ma per la sua morte portai dentro ,nel profondo, un misto impregnante come di nebbie,vento,gelo,polvere,; vagai mezzo inselvatichito per lunghissime ore di giorni e giorni nella radura del sottobosco.
Di qui, m’è venuto in mente di partecipare al gesto ablativo del sole innamorato.Ho raccolto ,quindi ,per tempo,nel mio immaginario,tra macchie,boschi,rive di ruscelli d’altura, radiosi esemplari di peonie, ranuncoli,anemoni,gigli rossi,dai colori si,vividi,di quella fiera gentilezza, tipicasoltanto della flora montana.
C’è,ura,da cogliere quello spazio di tempo in cui il sole fa pausa a preparare generose bracciate di rose per il ritorno sulle montagne . Eccomi, quindi, senza indugi,a saltare sull’altipiano di Fonte Vetica,trascegliere il puledro più stellante della mandria,cavalcarlo così a bisdosso,gerla tracolma sulle spalle, rintracciare il posto dove il sole sta preparandosi per suo viaggio di ritorno sulle vette;e così pregarlo ed ottenere di versare e mescolare i miei fiori di montagna ai suoi, in sgno della più gentile partecipazione da parte di tutta la vallata.
E chissà che col tempo,non prenda corpo la leggenda popolare ,con i suoi più affabulati particolari,di una gerla di fiori luminosi mescolati a quelli sul cocchio del sole da un misterioso donatore per uno straordinario “gèmino tramonto”
E,ancora,chissà che questa sera,la carezza del sole,a chi guarda dalla vallata,non riveli un insolito timbro roseo-ardente.
Ecco,in contrappunto,partecipe, nella tensione prenotturna, ino sciamio di luci,Isola che sembra consegnare la propria anima intatta,in xdono,da bere sulla cavità di mano,offerta , nella loro valletta,dsl Ruzzo e dal Mvone.
E per chiudere ,in tale magico tempo d’incanto e di grazia viene incontro il pensiero dell’Amie: fragli uomini di penna è sempre presente un nesso fra scrittura e amicizia. IsoladelGran Sasso ha nel suo cartiglio araldico storicoculturale, il peculiare vanto dei mòniti cinquecenteschi inscritti su architravi e soglie.